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Il tesoro di Augusto in Campo Marzio


Nella Roma del X secolo molti erano i pellegrini che all’approssimarsi dell’anno Mille si recavano penitenti in San Pietro, ma tra questi vi erano anche uomini che andavano in Campo Marzio nei pressi del Mons Citorio dove si trovava una statua di bronzo sul cui basamento era scritto “Hic percuote”, percuoti qui.
Alcuni credevano che la statua rappresentasse Giulio Cesare, altri Augusto visto che si trovava non distante dell’obelisco che faceva da gnomone della meridiana che il princeps aveva costruito; durante il giorno in molti, pellegrini ed avventurieri, soldataglie e popolani, passavano nei pressi e continuavano per la loro strada gettando solo delle fugaci occhiate ma non appena scendeva il buio ombre si aggiravano intorno alla statua e percuotevano con mazze e pietre la statua, tanto che era sfregiata ed aperta in più parti, alla ricerca del tesoro di Ottaviano Augusto.
Non si sapeva chi avesse diffuso la storia di un immenso tesoro che proprio Augusto avrebbe fatto sotterrare in quel punto del Campo Marzio; la storia di un grande tesoro nasceva sicuramente dal fatto noto a tutti che Augusto era l’uomo più ricco che fosse mai vissuto.
La leggenda del tesoro sepolto in Campo Marzio venne raccontata da Guglielmo di Malmesbury, un monaco benedettino che era il bibliotecario dell’Abbazia di Malmesbury, il quale aveva ritrovato un testo in cui si raccontava la storia di Gerberto d’Aurillac, monaco benedettino ed anche scienziato, che venne in possesso di un libro di pratiche magiche a cui avrebbe fatto sovente ricorso per arrivare anche al soglio di Pietro.
Secondo Arturo Graf, studioso del medioevo, la leggenda nacque da un’opera di Adalberone, vescovo di Laon in Piccardia che, dopo aver favorito insieme ae Gerberto allora vescovo di Reims l’ascesa al trono di Ugo Capeto, iniziò a scontrarsi con lui probabilmente a causa della carriera che lo portò dopo Reims a Ravenna.
Il testo della storia probabilmente è quello scritto da Benone che era stato fatto cardinal da un anti-papa ed al quale si deve “Vita et gesta Hildebrandi", un rabbioso libello, dove a Gregorio VII accomuna anche Gerberto accusandolo di avere conversazioni con il diavolo con cui avrebbe fatto dei patti per i quali aveva dei poteri magici che gli consentivano di fare cose impossibili agli altri.
La leggenda si alimenta dell’ingegno di Gerberto che aveva trasformato l’orologio solare di Magdeburgo in orologio meccanico e poi costruito l’orologio solare di Reims e poi quello di Ravenna e che rivoluzionò la misura delle ore che da canoniche o temporarie divennero tutte di eguale durata con l’introduzione dello gnomone polare; questa fu la grande intuizione di Gerberto d’Aurillac che sarebbe diventato Papa Silvestro II, il Papa dell’anno Mille.
Proprio con i poteri magici che “si diceva” avesse, Gerberto risolse il mistero del tesoro di Augusto od almeno ci andò molto vicino. La storia raccontata da Guglielmo di Malmesbury vuole che andando in San Pietro e passando come tutti i pellegrini in Campo Marzio vide la povera statua orrendamente rovinata da innumerevoli cercatori che l’avevano percossa ma anziché fermarsi al primo significato di “Hic Percuote”, Gerberto pensò potesse essercene un altro “Hic per caedere” che può significare anche “qui cadi dentro”, se così era allora doveva esserci un altro indizio ed infatti la statua aveva un dito puntato in una direzione ed indicava un luogo che però, seguendo l’indicazione della scritta ed in diacronia con il lemma latino (occido,is), poteva essere visto solo al tramonto. Così fece Gerberto che ritornò sul posto nel pomeriggio accompagnato da un cameriere e individuato il luogo vi infisse un palo a segnalazione del punto preciso di dove l’ombra del dito cadeva in quell’ora. Tornò, sempre con il servitore, di notte quando non vi erano occhi indiscreti che potessero vederlo e nel punto dove’era il palo “fece con i suoi incanti spalancare la terra”. Ai due apparve una grande sala con le pareti ed i soffitti rivestiti d’oro, “cavalieri d’oro giocanti con aurei dadi, e un aureo re, sedente con la sua regina a mensa apparecchiata, con intorno i ministri e sulla mensa vasellame di gran peso e pregio, ove l’arte vincea la natura”. Tutto quell’oro splendeva per la luce che proveniva da una stanza più interna dove si trovava un “carbonchio”, ovvero tizzone dell’inferno (la pietra preziosa che si riteneva fosse nascosta nel cervello dei draghi); nel Medioevo si riconosceva al carbonchio il potere di far risplendere la luce nel buio e di portare spiritualità all’anima ...



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di M.L. ©RIPRODUZIONE RISERVATA (Ed 1.0 - 16/05/2016)




Bibliografia:

  • Arturo Graf: Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, 1892-1893 Loescher, Roma.